Omaggio a Bosa: Nord Sardegna coast to coast

Mare calmo, mare mosso, mare piatto, mare in burrasca. Omareneromarené. Tra il dire e il fare, maretta, un mare di opportunità…
Fuori dalla storia? Il mare è in tutte le storie, nelle storie di tutti, persino di chi pensa di abitare in montagna da generazioni. Ci sono ancora sardi dell’interno che non sanno nuotare e alcuni che non hanno mai visto il mare, ma questo non è mica sufficiente a dire che non si sia infiltrato nei tessuti e nelle ossa, abitando quest’isola: a guardarci bene dentro, le volte delle grotte nel Supramonte di Dorgali sono decorate con conchiglie fossili, segno che un tempo – almeno non da pesci – eravamo tutti inabissati. Della Storia, poi, non se ne parli: che lo vogliamo o meno, nelle guerre e nelle paci, nelle esplorazioni e nei commerci, nelle carestie e nelle vittorie, il mare ha sempre un ruolo non da poco.
Per qualcuno, poi, il mare è tutto. Ecco Bosa, la signora delle acque, dove l’abbraccio tra terra e flusso marino è un vincolo indissolubile. Sulla dorsale della Planargia che si affaccia sul mare ci sono ancora le antiche roccaforti strategiche per il controllo del territorio, sia tener d’occhio gli animali sia per la difesa dai nemici: una lunga fila di nuraghi che ancora resistono, nonché il Castello Malaspina per la sorveglianza della Sardegna medievale.
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Bosa Temo

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Ed eccola Bosa, una piccola manciata di mattoni variopinti sulla foce del Temo, unico fiume navigabile di Sardegna che la taglia in due: il centro storico verticale di Sa Costa e la parte orizzontale di Sa Piatta. Tutt’intorno un dipinto mozzafiato, dove vive l’ultima colonia di grifoni in Sardegna. Il fiume tra le terre diventa il mare dentro la terra, e canta: camminando tra l’umidità dei vicoletti e le ombre degli archi sotto le scalinate interminabili, ho la fortuna di sentire il canto a tragiu, il coro polifonico della tradizione bosana fatto di quattro voci maschili – basciu, contra, tenore e cuntraltu. Proseguo salendo fino alla parte più alta: tra cortiletti curati e giardini trascurati ci sono sospettosi gatti e fichi d’india, tegole rosse e pini marittimi, scalini che portano chissà dove, casolari vuoti, stanzette nascoste e, su un poggiolo, una bandiera dei pirati, col mare in lontananza a far da sfondo. Strambo e imprevedibile, il paese del carnevale più osceno d’Italia, il paese del filet e della trachite rossa. Così bella da togliere il fiato, Bosa, così bagnata da riempire ogni giorno quattro secchi d’acqua da ogni deumidificatore casalingo. In una delle vie di Sa Costa – dove le case sono tutte strette a tre piani con una stanza a ogni piano – incontro la signora Maria, a settant’anni ancora affaccendata, che aveva sposato un pescatore di professione. “Secondo me questa casa è la più bella del borgo, l’avevo pagata un milione. Negli anni Cinquanta e Sessanta i pescatori facevano bei soldi” mi racconta fiera, “erano bei tempi. Tutte le mattine d’estate – d’inverno le onde erano troppo pericolose – mio marito partiva alle quattro e mezza del mattino e usciva al largo coi fratelli per sei ore. Mi diceva a mezzogiorno affacciati e quando mi vedi entrare nella foce inizia a preparare la pasta, che io arrivo morto di fame, e ogni giorno a mezzogiorno io mi affacciavo alla finestra dell’ultimo piano: scorgevo la bandiera della loro barca, la riconoscevo subito, e mettevo l’acqua a bollire in pentola”.

Vista dall’alto, la foce del Temo è veramente una bocca: nel bacio tra la terra e il mare puoi riconoscere le labbra e la lingua, la mandibola e la mascella, il mento, la guancia, il solco tra il naso e il labbro superiore… Eppure è una bocca che tace un segreto, una disdetta chiusa dentro un nodo in gola. È l’ostruzione del 1528, quando Bosa – sotto il dominio spagnolo – chiuse la foce con grossi macigni e altro materiale, per impedire l’invasione di una flotta francese. Bloccando il flusso dell’acqua, il fiume divenne stagnante perché non poteva più sboccare – né più baciare – e si vide strozzato per secoli, aggravando le già disastrose inondazioni e le paludi malariche. Dopo, tutte le opere continuarono a essere eseguite male – scali, porti, arginature – e a esser distrutte dalle mareggiate. Sono molte le testimonianze delle terribili conseguenze di quell’errore, come le suppliche e le denunce degli antichi sindaci: nel 1602 Giacomo Lavasco scrisse al viceré Antonio Coloma “prima che la bocca del fiume fosse chiusa, le galere regie dimoravano nel fiume ed entravano sino al porto, con gran beneficio della città e della Corte in quanto erano cariche di merci”; nel 1641 il nuovo sindaco scriveva al parlamento avellano che anche i battelli di piccole e medie dimensioni diretti in città attraverso il fiume erano ormai “costretti a percorrere un tratto trainati a forza di braccia”; nel 1643 il sindaco bosano Pietro Delitala, poeta e amico del Tasso, scrisse “l’insabbiatura dell’imboccatura del Temo impedisce ai vascelli di attraccare liberamente”. L’ostruzione venne rimossa cinquant’anni fa, per essere però unita all’Isola Rossa – che ora è una penisola – sulla sponda sinistra del fiume.
Adesso il porto è molto all’interno rispetto alla linea del mare – un porto di fiume, quasi un porto di monte – e fuori nel golfo c’è una diga foranea: dall’alto, come un dente spezzato, c’è ancora qualcosa che non lascia libero il fiume di correre e baciare il suo mare, il mare dominante che intanto prosegue la sua azione sedimentaria creando nuove spiagge.
Verso sud, a circa due miglia dalla costa, c’è il gruppo di isole chiamate Corona Niedda. Sott’acqua, un’ascidia riposa sulle spugne blu, una ciprea lucente sfoggia i suoi colori giallo-arancio, il re di triglie dagli occhi neri osserva: tra le rocce e la posidonia c’è un gambero vinato, uno dei gamberi più variopinti del Mediterraneo. La discesa nel blu è il passatempo preferito dai barracuda, che si muovono in sincrono come in una coreografia. Sul fondo, lunghe antenne testimoniano la presenza di grosse aragoste. I piccoli rami di corallo rosso sono ancora abbondanti in queste acque. Tra le meduse più urticanti del Mediterraneo, c’è poi la pelagia noctiluca, trasparente e luminescente: una notte stellata dalle nebulose indaco…

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foce Temo.
Mauro Olivieri ha quarant’anni ma porta negli occhi un luccichio bambino. Architetto, poeta in rima, figlio d’arte ed erede della tradizione bosana della barca, è nato in una famiglia originaria della Liguria il cui capostipite arrivò qui nell’Ottocento, generando i migliori maestri d’ascia della costa e diramandosi anche a nord-est dell’isola fino a Olbia. Suo nonno è stato l’ultimo a operare a Bosa: il grande Mastru ‘Oltolu – cioè Bartolo, da Bartolomeo – nato nel 1906 e morto analfabeta. Era il 1948 quando costruì la sua barca più bella dentro una delle conce – Sas Conzas, le antiche concerie – vicino alla sponda meridionale del fiume. Lo attraversiamo percorrendo il Ponte Vecchio, che unisce le due parti del borgo antico, perché “è una cosa da vedere”, mi dice emozionato, “pensa che mio padre ci ha lavorato ad appena otto anni”. Dentro l’edificio c’è ancora lei. Da quasi un secolo, da quando nonno ‘Oltolu costruì questa meravigliosa barca con l’intenzione di allargare poi l’ingresso del magazzino per farla uscire, è rimasta imprigionata qui, perché ora è considerato un locale di pregio e la sovrintendenza non ha più dato il permesso promesso. Accade anche questo a Bosa, la città del mare incastonato nella terra – e delle barche che diventano gioielli nascosti, nell’arredamento urbano.

Gli antenati di Mauro sono tutti maestri d’ascia; suo padre Giovanni ha però deciso di studiare e diventare insegnante e direttore amministrativo, perché la sua giovinezza “ha coinciso con l’avvento della vetroresina, quando tutto il sistema è andato a rotoli: preferivo lo stipendio fisso a una vita da lavoratore autonomo con un’arte antichissima che stava cedendo il passo alla modernità”. Ma sia Giovanni che Mauro hanno imparato il mestiere, dai cinque anni già in bottega e come un sigillo di famiglia non dimenticano nessun dettaglio.
Mi mostrano una barca fatta da Bartolomeo e Giovanni. Demolita, Mauro la sta riprendendo in mano insieme al padre per rifarla: “perché dopo un po’ di anni le barche vere si cuociono al sole. L’opera morta, quella che non viene a contatto con l’acqua, marcisce: deve stare in acqua o in un magazzino; se sta fuori al sole, con questo clima, dopo qualche decennio è da rifare. Questo lavoro, per come lo facciamo noi, è così”. Padre e figlio mi accompagnano nell’antica bottega di casa, che emana un forte odore di legno, resina naturale, grasso e vernice. “Io sento quest’odore da quando ero piccolo” mi dice Mauro. “La costruzione di una barca nasce dal vento – dagli alberi curvi – e finisce col vento – per navigare”. C’è già pronto su Sandulinu, imbarcazione tipo gondola per i bassi fondali: stretta e lunga quattro metri. Con due camere d’aria stagna e scafo a fondo piatto, sarà usata da un solo vogatore munito di un remo a due pale, la pagaia doppia, mi dice Mauro. “Per fare questo volevo cercare un tronco che avesse già navigato il mare: allora sono andato per mare a cercarlo, sono salito a nord, e l’ho trovato a Tangone. Pesantissimo, imbevuto di mare”. Ora che ce l’ho davanti agli occhi mi accorgo che questo non è un sandolino qualunque. “Vedi? È identico agli scafi delle navicelle nuragiche”. In effetti ha ricreato perfettamente con il legno ciò che gli antichi ci hanno lasciato di bronzo: questa piccola opera d’arte ha anche quello che chiamano su corrumurone, il corno del muflone, presente nella testa dell’animale sacro per la protezione dagli abissi. Preciso in ogni piccolo dettaglio, dalle orecchie alle corna, dalle rughe del muso al pelo del collo, senza parlare poi dello sguardo vitreo e intenso, è scolpito nel legno e montato sul dritto di prua. “La nostra storia del mare sardo è molto più antica di quanto pensiamo: i bronzetti delle barche che abbiamo ritraevano animali che in Sardegna non c’erano. I nemici colonizzatori avevano spinto i sardi verso l’interno, ma questo non significa che non abbiamo avuto una tradizione marinara antichissima. La nostra storia è stata cancellata ma adesso, coi giganti di Mont’e Prama, cambierà tutto. Anche se per molto tempo è stato detto di no, i sardi navigavano, hanno sempre navigato”.

bosa sa costa Dopo il sandolino c’è un altro tipo di barca a paranzella, Su Tziu, costruito dal padre Giovanni nel Settanta. Una serie di cataste di legno di quercia stagionato sono sparse per tutto il giardino. “Il legno che usiamo, che per l’ossatura interna è ulumu, frassu e chelcu – olmo, frassino e quercia – deve avere la venatura già curvata dal vento. Le parti esterne della struttura, invece, il fasciame, la pelle della barca, sono fatte di conifera, per esempio il pino. Poi la coperta in legno di iroko e l’opera morta in mogano. Per fare la cabina, il compensato marino”. Mi guardo intorno, nessun quaderno, nessun foglio. “Le barche nostre si fanno a mente, non c’è mai un progetto. È un approccio empirico alla vita! Anche il filet, il telaio tradizionale bosano, lo fanno a mente: non ci sono tabelle né manuali. È l’occhio che dà le proporzioni, la linea e lo stile del maestro” mi spiega Mauro. “Poi, quando i miei antenati costruivano una barca a mano, infilavano una monetina tra una tavola e l’altra, per buon auspicio in mare, che porti fortuna e ricchezza. Noi seguiamo la tradizione”. Ed ecco la sfilata di martelli, asce, scalette di legno, morse, morsetti, matite, scalpelli, migliaia di chiodi… e poi, immancabile, la stella di famiglia, il marchio Olivieri dipinta sulla prua.

“La marineria è cambiata. Noi usiamo ancora i termini marinareschi antichi in logudorese, che oggi sono diffusi solo a Bosa e a Olbia. Su garbu è lo strumento per misurare l’apertura della madera, s’intriscadòre serve per sistemare i dentini della sega. Sos obiros sono le punte in legno fatte con l’ascia e il pialletto per assicurarsi che tutti i buchi sulle tavole di fasciame siano chiusi prima di cucire il legno con i chiodi. Sos chimentos, sa cravattadura. Su tragante, su violone, sa forra, sas làtias, sa pàscima, su zangone, sa giasa. La chiglia è la spina dorsale e su questa si innestano sas maderas e sos istamanàles che formano le costole: poi si rivestono con la carne a cominciare da sa tzinta, la tavola di fasciame strutturale che cinge la barca. E poi sa gallettadura e sa zangonadura, la curvatura che scende e va giù, creando le sinuosità della barca fatta a mano, che la fanno andare più veloce, formando in più una sezione di pescaggio. Sono forme bellissime: noi non abbiamo inventato niente, i pesci sono fatti così, idrodinamici. La vasca da bagno fatta con lo stampino, la barca di oggi, ha distrutto tutto. Solo di nomi sardi, qui dentro, c’è un patrimonio. Un patrimonio di conoscenze, di linguaggio, con tutti i segreti di famiglia delle generazioni che ci hanno preceduto. La questione della lingua è importante: l’italiano che ha soppiantato il sardo, sull’isola, è come le barche nuove. È la metafora della varietà e della ricchezza che si fanno da parte di fronte all’uniformato, all’omologato. Mio nonno andava a tagliare legna anche a Gavoi, a Calangianus, a Cuglieri, e durante questi contatti ognuno parlava la propria variante del sardo: c’era uno sforzo reciproco di comprensione e una ricchezza di linguaggi che oggi mancano. È come la volontà di ricostruire con mio padre questa barca: per me è soprattutto un atto di resistenza di fronte alla sparizione sistematica di patrimoni culturali millenari. È vero, la modernità ti risparmia un sacco di problemi… le barche nostre hanno bisogno di continue attenzioni, ristrutturazioni, hanno bisogno che l’uomo le curi, collabori perché è materia viva; e poi i tempi naturalmente si sono ridotti drasticamente. Per fare un pezzo e metterlo in opera ci vuole molto tempo. Ormai le cose fatte a mano sono diventate quasi impossibili da concepire”.
Mauro fa un sospiro, poi continua. “Questo lavoro è speciale perché ti permette di modellare il legno come vuoi tu. Prima lo bagni in modo che si ammorbidisca e si impregni d’acqua, poi ne fai quello che vuoi. Questa è una barca, questo è un tesoro. Non come quelle casse da morto. Perché il vetroresina è materia morta, mentre il legno reagisce sempre a contatto con l’acqua, si dilata, le tavole entrano in forza una con l’altra ed entra in gioco la natura, il legno esercita la sua funzione e garantisce la tenuta stagna dello scafo. Non è neanche come fare il falegname: questo manufatto non è inerme come può essere un infisso, è vivo. La barca di legno, se la prendi, dev’essere una religione. Perché se piano piano la abbandoni è finita, marcisce”.
Insieme a sua madre mi fa entrare in casa e mi racconta la storia di un amico, un pescatore “morto senza il mare”. Di famiglia antica anche lui, era stato imbarcato da bambino e fino alla vecchiaia saltava agile in navigazione e da uno scoglio all’altro. Quando poi gli era mancata la barca, a quasi novant’anni si era lasciato morire. Nell’ultimo periodo pescava quasi esclusivamente sa càntara – la tanuta – e al solo sentirne il nome si commuoveva, nei suoi ultimi giorni di vita.

“Negli anni Settanta si pescava tantissimo, d’estate arrivava mio babbo da pescare e noi piccoli al casotto di legno – che aveva costruito sulla spiaggia di Turas – lo aspettavamo felicissimi e a volte andavamo a pescare anche noi. Molte cose stanno sparendo gradatamente, anche molti tipi di pesca. Le nasse in giunco prima di tutto, veri capolavori dell’ingegno e dell’abilità umana, con cui si pescavano aragoste e ogni tipo di pesce che rimanesse intrappolato dentro, perché congegnate in modo che si riuscisse a entrare ma non a uscire. Era una pesca più ecologica perché il materiale utilizzato era biodegradabile e le maglie erano abbastanza larghe da far uscire il novellame. Oggi questi manufatti sono stati soppiantati da cilindri in reti metalliche rivestite da una retina a maglie strettissime di nylon, che non permettono la fuga dei piccoli pesci. È un sistema scriteriato e autolesionista perché chi butta via i polpetti morti a chili sta buttando via il futuro del mare, e quindi il proprio. Se durante una mareggiata queste nasse si perdono non si distruggono come quelle di giunco che dopo un po’ marciscono, ma continuano a pescare, oltre ad inquinare, per un periodo molto lungo. Anche le reti erano biodegradabili, fatte di cotone; c’erano pescatori che le cucivano con le spolette e per impermeabilizzarle le mettevano a bagno in paioli con una tintura di resina estratta dal pino, che dava al cotone una caratteristica colorazione rossiccia. Fabbricavano con le loro mani tanti tipi di reti per ogni tipo di pesca. E poi c’era la pesca a bullare – si prendeva una fune e si agitava per spaventare i pesci, che entravano nella rete – e la pesca in fiume con l’euforbia, la pianta lattiginosa pestata dentro i sacchi che veniva agitata sott’acqua per farli asfissiare e venire a galla”.
Chiedo a Mauro se ha mai veramente avuto paura del mare, e mi risponde così: “gli antichi andavano in mare sin da bambini, pieni di amuleti perché ogni uscita era pericolosissima. Il mare ha distrutto tutto più volte nel porto, e molta gente è morta entrando in foce. Oggi siamo più attrezzati ma il mare è sempre la grande incognita blu. Una volta sì, ho avuto molta paura. Tornavo a Bosa con il mio sandolino, era settembre, dalla costa nord. Ma i venti cambiarono all’improvviso e cominciarono a venir fuori delle onde a cuspide molto alte. L’acqua mi ha riempito la barca, io ero solo col mio remo, e ho capito molte cose. Prima l’uomo aveva la percezione dei suoi limiti, la vita in mare era più dura, c’era una simbiosi con l’elemento – che era generoso ma anche infìdo – e un rispetto profondo, un timore; c’era un codice, per esempio nessuno si azzardava a salire sulla barca dell’altro. Adesso siamo soli, facciamo a meno dei remi, abbiamo i motori, sfrecciamo su scafi velocissimi senza rapportarci con l’acqua e abbiamo dimenticato che cos’è lottare con il mare per tornare a terra. Mentre ero lì, ero così disperato che mi ero inventato preghiere”.

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bosa marina
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Arrivo a Bosa Marina al tramonto. Ecco dove il Temo bacia il Mediterraneo.
La chiesa della Madonna del Mare – Santa Maria Stella Maris – è legata a doppio filo con il santuario di Santa Maria Maddalena di Marsiglia, dove è ancora conservata la targa di un certo Gavino di Bosa, che implorò la grazia in mare e fece voto di pellegrinaggio per salvarsi dal naufragio durante una tempesta. Quante sante e quante donne annodate a questa costa, come quelle citate in antichi contratti di matrimonio tra sarde e uomini stranieri: nelle clausole del contratto, ce n’era sempre una che sanciva il ritorno della sposa in Sardegna – al porto di Bosa – non appena giungesse la morte del marito.

Profumo di salsedine, vento delicato, una gatta fulva sta sotto il Muraglione Caduti di Cefalonia. Accanto a lei qualcuno ha lasciato dei croccantini e un paio di scarpe coi tacchi, come se la panchina in trachite fosse un altare e lei, vecchia ma facoltosa signora, lasciasse – a sera, al calar del sole – le noiose attività mondane per sentire il mare, leccarsi i baffi e farsi omaggiare.
Quasi tremila anni fa, in piedi qui, sarei stata in acqua, ma ora c’è questa barriera di contenimento per la forza del mare – che per evitare alluvioni rompe le onde, congiungendosi all’Isola Rossa. Sull’isolotto c’è un paesaggio lunare, i pescatori dell’imbrunire stanno in piedi sui crateri d’acqua salata e alghe. Li osservo minacciati dalle enormi onde che si sbattono sui loro piedi, ogni tanto saltano indietro per non venir risucchiati indietro.
Finché il sole, che scende piano sull’orizzonte marino, ci lascia tutti in una sorta di contemplazione del suo lento tuffo: davanti ai suoi ultimi minuti, una luce d’oro s’inabissa, con un corteo di uccelli in volo e gli ondoni che, per celebrare, si infrangono con più forza sui pescatori lunari.
È tramontato. E noi tutti, umidi e muti, insieme con gli altri animali e gli sbuffi del vento, ci uniamo in una malinconia mista a gioia, in un evento naturale a metà tra un elogio funebre e una festa di fine anno. Come sempre il mare, testimone di tutto questo, ne è anche il promotore. La sua voce è un rombo che conosco da millenni, che d’istinto – come una lingua che mi parla – mi dà terrore ed euforia. Ora gli specchi di sale sulle rocce grigioverdi sono luminosi di un chiarore flebile, un riflesso di tramonto. Un bagliore che va via, un viaggio verso altri mondi.

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